L’impegno civile

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La funzione dell’attore tramite fra idee scritte e realtà circolante è per sua natura politica.
E se un autore pensa di riferirsi a fatti realmente accaduti, la sua passione di scrivere e di vivere diventa passione civile.

Quel 16 marzo così lontano ma ancora così vivo

Prefazione I giorni del NO

I giorni del NO [Pdf della Prefazione] dimostra innanzitutto una cosa: che il suo autore Mario Maranzana è un uomo coraggioso. Dico coraggioso nel senso che, certamente, da alcuni anni, molti scrittori di teatro avranno pensato, e provato, a mettere su carta la cronaca e il significato di quell’avvenimento tragico che è stata la uccisione di Aldo Moro, e ha gettato addosso alla coscienza di ogni cittadino una valanga di problemi morali e politici e di comportamento. Certo molti avranno pensato anche alla forma con cui poteva riprodursi spettacolarmente la vicenda Moro, un teatro romantico, poetico, oppure aspro e duro, di inchiesta, un teatro politico che tenesse conto esatto delle forze in campo e dei documenti, un teatro di denuncia, un teatro sartriano, l’illusione del teatro di massa, il segno di Rolland, il teatro cronaca. Ma credo che quei molti siano tutti arretrati di fronte a quella parola, a quel significato, a quel ricatto teatrale: “spettacolarità”. Mario Maranzana no, non ha arretrato, ha scritto, si è fatto rappresentare, ha anche aggregato attorno al suo progetto molte persone, come se questo potesse essere il nocciolo di un tentativo di creare un teatro più esplicito nei riguardi della società. E ha fatto bene, a intestardirsi nel portare alla ribalta il suo Moro. Perchè quello che abbiamo veduto e ascoltato è suo, è proprio suo. Nonostante che, alla resa dei conti dell’ unico atto bruciante, ognuno abbia potuto riconoscersi in un briciolo di quella verità, questo resoconto dei giorni atroci di Moro si salva ed emerge proprio perchè è una sorta di metafora aggressiva e singolare dei rapporti tra le generazioni.

Il discorso di Maranzana parte proprio dalla cronaca, quella fredda della radio e della televisione. Ma subito entra in un cunicolo metafisico: Moro vi è rappresentato riflessivo e solo, di fronte al suo passato, ma anche di fronte al suo minaccioso futuro. Se ne sta nella sua prigione del tutto inventata, fatta di tralicci di tubi sui quali lui si appollaia come un uccello ferito, e qui è costretto a dialogare con gli altri, non solo con la giovinezza dei suoi carcerieri, quanto con se stesso e con la sua famiglia, con i suoi amici che sembrano distanziarsi da lui. Maranzana ha preso della realtà dei resoconti qualche brandello delle lettere che Moro scrisse, e qualche motivo di indagine giornalistica, ma direi poco di più: con sicurezza si è subito allontanato dalla ipotesi di cronaca, per indurre il pubblico alla riflessione e alla intimità della interrogazione, insomma al pensiero. Maranzana, credo, è di certo partito dalla idea che rinchiuso in qualche luogo assurdo, sicuro di morire, Moro poteva scoprirsi un uomo come tutti, e noi, riconosciamo uno di noi, anche con la pienezza delle sue paure, e un pizzico di dubbio. Un uomo che, a tratti, è ancora causidico, ma che si rivela più solo, nei rapporti per esempio con l’idea di divinità, di quel che si suppone. La sterminata mole dei materiali, dei fatti, delle inchieste, delle supposizioni, l’autore l’ha lasciata da parte, come quei giornali che sono accartocciati nella prigione di Moro, che minuziosamente viene ripulita alla fine. Il suo ritratto di Moro non è politico, non è patetico, non so che cosa sia, certo è doloroso. Augusto Zucchi si è dato tutto il peso di “riprodurre” un personaggio conosciuto. Era aiutato dal fatto che non vi era in lui nessuna somiglianza possibile col modello, e dunque una sorta di assorta estraneità. Ha reso dunque un Moro credibile, ed efficace, come uscito dalle pagine di uno di quei diari di prigionia e di carcere che ci hanno addolorato in questo dopoguerra. Era di Zucchi anche la regia, sollecitata da una scena simbolica di lumi che si accendevano improvvisamente, di torri, di tubi, e di canapi che penzolavano sugli spettatori, di John Frankfurter. Alla fine la scena si chiudeva contro il pubblico, con lunghi pannelli di lamiera, per fornire l’ atrocità fredda dell’ esecuzione. E gli esecutori erano usciti dall’ anonimato, per mostrare i loro volti di attori: Amerigo Fontani, Matteo Gazzolo, Michetta Farinelli, Luciano Roffi. Quella stella delle B.R. che minacciosamente campeggiava, doveva sembrare un geroglifico estraneo, apparentemente lontano. Ma ognuno, l’autore per primo, e lo spettatore con lui, sapeva che non era vero.

di TOMMASO CHIARETTI
La Repubblica, 22 maggio 1986